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- LA NUOVA PRIMAVERA

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La nuova Primavera dei popoli mediterranei




Di Paolo L. Bernardini


Se al modo di dire “scoppia un 48” nei secoli futuri si sostituirà quello “scoppia un 14”, dal mio quartierino nell’aldilà non potrò che essere felice, e sorridere soddisfatto. In questi giorni di gennaio, giorni d’attesa trepida, di preparativi, di aspettative, di lotta, ritorno volentieri, e offro ai lettori un ulteriore motivo di riflessione, sull’esperienza che diede vita al 1848, ancora più che mai viva nella coscienza siciliana e napoletana, una scintilla che accese le polveri di un continente intero, con ampi strascichi globali.

Perché è da quelle che sembrano periferie, ma non lo sono – la Sicilia del Regno delle due Sicilie, uno degli stati più importanti non solo del Mediterraneo, ma del mondo, a metà Ottocento, ricco di denaro e di industrie, di talenti e di possibilità – che scoppiano spesso scintille che mettono in crisi interi sistemi di equilibrio dei sistemi politici, come quello instaurato dalla Lega Santa a Vienna, nel 1815, che avrebbe dovuto garantire eterna pace al mondo, cosa che non vi sarà finche gli Stati continueranno ad esistere. Almeno la Lega, o “Concerto delle Nazioni” ebbe il merito di garantire trent’anni di pace precaria, su premesse non solide, ma anzi spesso farraginose. La Lega delle Nazioni dopo il 1919 fece molto peggio: nel 1939 l’Europa era già in guerra, e il periodo tra le due guerre, come valenti storici hanno ampiamente dimostrato, e rimando all’ottimo “A ferro e fuoco” di Enzo Traverso, studioso marxista formatosi a Genova, emigrato in Francia, e ora negli USA a Cornell University, fu in realtà di belligeranza sotterranea ma neppur troppo, si consumò una vera guerra civile europea tra 1914 e 1945 con un’interruzione necessaria quasi solo per mettere a punto le armi e costruirne di nuove, per far meglio scempio di popoli e città, se non civiltà intere.

Ora, dalla rivoluzione siciliana del 1848, che scoppia il 12 gennaio, si possono prendere diversi spunti di riflessione. Innanzi tutto storiografici: si suole dire che le rivoluzioni del 1848 sono tutte uguali, nel senso di una replica aggiornata di quella francese del 1789: la ricerca di una limitazione al potere assoluto del monarca attraverso lo strumento costituzionale, per dare lo spazio di rappresentanza ambito non tanto al “popolo”, quanto a nobili (il caso siciliano) o borghesi che dalla gestione del potere politico erano almeno ufficialmente esclusi. Parzialmente vero, ma solo parzialmente. Certamente, vi era in Sicilia il precedente costituzionale, e la nuova costituzione del 1848 ricalca ampiamente quella del 1812. Buona, o meglio discreta rappresentanza popolare, limitazione del governo assoluto, principi “liberali”, anche se non anti-cattolici, nel significato peculiare al tempo di “liberalismo”, che nulla ha a che vedere con il liberalismo classico (“liberale” è concetto che ha assunto tanti significati, a volte affatto contrastanti, nella Storia). Ma vi è un motivo di fondo molto importante, davvero, che gli storici tendono a non sottolineare troppo, co-onestati nella loro impresa di disinformazione tramite non menzione, dal fatto che personaggi come Crispi, poi futuro artefice e carnefice nello Stato unitario, prese parte a tali moti, ed anzi partecipò al governo di quello che alcuni – significativamente – chiamavano “Stato di Sicilia”, altri “Regno di Sicilia”.

Il 48 siciliano fu l’ultimo grande moto INDIPENDENTISTICO dell’isola, l’isola dei Vespri, superiore anche a quello del MIS negli anni Quaranta del Novecento, perché RIUSCITO.

La fine delle tradizionali autonomie – e fortissime – che riflettevano le situazioni diverse le quali a loro volta dividevano radicalmente Napoli da Palermo, la Napolitania dalla Sicilia, nonostante l’uso comune della locuzione “Regno delle Due Sicilie”, fu sancita dopo Vienna. Nel 1816 una “legge fondamentale” tolse le prerogative di autonomia dei due regni, in modo molto violento: qualcosa di simile, se vogliamo, al “Treaty of Union” tra Scozia e Inghilterra del 1707. Insomma si inventarono proprio le premesse di un “calderone” meridionale, una MERIDIONIA, perdonatemi la cacofonia del neologismo (una Padania realizzata, ma con molto meno affinità di quante non ve ne siano tra i popoli padani, accomunati almeno, e non è poco, dalla geografia) m non ostante questo, sul breve termine almeno, il neonato regno centralistico continuò a prosperare economicamente, ma furono premesse per la devastazione sul lungo termine, e l’incapacità di affrontare crisi come quella determinata dall’arrivo dei corsari garibaldini.

La sciagurata decisione di Ferdinando I (o IV) del 1816 pose fine alla pur sofferta convivenza sotto una stessa corona di territori con tradizioni diversissime, da secoli. Insomma, il distacco da Napoli, il rivendicare una propria identità nazionale, il rifiuto di un sistema integrato e centralistico di gestione di quella “monarchia federata” che fu per lungo tempo il Regno di Napoli “congiunto” con quello di Sicilia – in un modello di antico regime, la Polonia-Lituania, ma anche parzialmente il Sacro Romano Impero, inviso ai centralisti biecamente interessati al potere e al denaro che ogni governo centralistico e forte dispensa ai suoi servi, sottraendo risorse vitali ai popoli – fu alla base della breve ma significativa vicenda dello “Stato di Sicilia”, che terminò tragicamente nel maggio 1849. Nel 1772-1792, occorre ricordarlo, le potenze imperialistiche e centralistiche europee avevano spartito e sepolto definitivamente, per oltre un secolo, la Polonia, scomparsa dalle mappe, e, se Hitler avesse continuato l’alleanza con Stalin e i due avessero vinto la guerra, la Polonia non esisterebbe più.

Perché terminò malamente l’esperienza dello Stato di Sicilia? Terminò perché si voleva l’indipendenza, o meglio il ritorno all’indipendenza sottratta, ma non ci si accordò sul sistema di governo, vi era chi voleva una repubblica, i mazziniani, chi delirava Gioberti alla mano su un’Italia federata con a capo il Papa, vi erano i nobili conservatori e iperconservatori, i sognatori di una “Italia Unita”, ma anche federalisti non sciocchi, i borbonici costituzionalisti, e quant’altro.

“La Sicilia sarà sempre Stato indipendente” è la chiave di violino, scritta e benedetta, della Costituzione e quel che si sente nell’aria, ma il risultato è che si chiama a governare addirittura un Savoia, nel complesso sistema di parentele tra Savoia e Borbone che talvolta fa apparire tutto il c.d. Risorgimento come uno scontro dinastico e una scherzo di cattivo gusto tra cugini e affini, Ferdinando Alberto Amedeo, il quale peraltro per vari motivi, ma adducendo il pretesto d’esser impegnato in guerra, rifiuta addirittura tale indesiderato onore. Storia triste, che va dalla Grecia (appena liberata, appena costituita in Stato) al Messico, quella di dover ricorrere a “sovrani stranieri” per governare il proprio popolo e la propria terra, perfino dopo l’esito positivo di guerre di indipendenza (non sarebbe il caso di rinominare la “rivoluzione siciliana” del 1848 “GUERRA DI INDIPENDENZA SICILIANA DEL 1848”, mentre con abominio si chiama “prima guerra di indipendenza italiana” proprio la schermaglia quaranttotesca che impegnò assai poco i Savoia, e ancor meno “l’Italia” che non esisteva?). Il tentativo degli storici di far di tutte le erbe – le guerre del 1848 – un fascio, somiglia sinistramente a quel che viene fatto nel Settecento aggiogando il diavolo e l’acqua santa, ovvero la Guerra d’Indipendenza Americana e la Rivoluzione Francese.

Tutto finisce nel sangue ma prima ancora in futili puntigli. La Sicilia perde l’indipendenza per l’incapacità della propria mal assortita e improvvisata classe politica a sostenere, una volta ottenutala, tale indipendenza stessa, per l’incapacità a gestire la libertà, e perché forse non tutti i siciliani nel governo dello Stato tale indipendenza volevano davvero mantenere. Poi si possono tirare in causa gli inglesi e i francesi – chi appoggiavano veramente, i mazziniani come La Masa o i nobili palermitani gelosi dei loro privilegi e ampiamente intrecciati negli interessi con gli inglesi stessi, da tempo presenti in forma di potentissima colonia commerciale in città? – la disaffezione del popolo (con molte eccezioni), la massiccia offensiva militare borbonica, insomma, una serie di ragioni, ma il parlamento siciliano, dal 25 marzo1848 a maggio 1849, quanto la città capitola, era fortemente, intimamente diviso.

Non manca il materiale per chi voglia approfondire. Ad esempio “Sicily and England”, di Tina Whitaker, tradotto in italiano dall’editore Torri del Vento di Palermo nel 2012. Manca forse un libro recente, agile che parli sinteticamente della vicenda, ma vi sono opere grandiose del passato, come quelle di Vincenzo Finocchiaro e di Federico Curato. E vi è abbondanza di materiale memorialistico: ad esempio il vivace diario del Principe di Torremuzza, pubblicato a Palermo nel 1898, o gli inediti di Michele Amari pubblicati a Napoli nel 1937 con il titolo “La rivoluzione siciliana del 1848”. Per capire qual era il contesto internazionale in cui il 48 siciliano ebbe luogo, si deve leggere l’ottimo lavoro del mio collega Eugenio Di Rienzo, “Il regno delle due Sicilie e le potenze europee” (Rubbettino, 2012), che è anche l’opera più recente sul tema. Vi è abbondante materiale a stampa sulla rivoluzione siciliana – atti di assemblee, memorie, e molto altro – per cui una monografia – possibilmente in inglese, per parlare al mondo – sarebbe quanto mai gradita.

Ma qui non siamo in un’accademia. Dal punto di vista pratico-politico. Il 16 febbraio vi sarà il primo importante voto referendario elettronico, in Veneto. E vi saranno le elezioni regionali in Sardegna, con Sardegna Possibile data al 25% almeno dai recenti sondaggi, e Michela Murgia che per la propria terra dà veramente l’anima, come Eva Klotz per il Sudtirolo. Forse ci vorrebbe una donna con gli attributi cubici anche per il Veneto e la Lombardia. In quegli stessi giorni vi saranno importanti decisioni prese a Trieste. Tutto il mondo delle “nazioni senza Stato”, o piuttosto delle “nazioni con troppo Stato”, di coloro che vogliono uscire dalla camera a gas dei centralismi obsoleti e criminali, sembra in fermento come lo era nel 1848. I moti siciliani diedero vita a quelli piemontesi, poi a quelli milanesi, e poi a quelli veneziani? Certo, il tutto si giuoca in pochi giorni. Il 22 marzo Venezia si libera dagli Austriaci, il 22 marzo terminano vittoriosamente le Cinque Giornate, il 25 marzo si apre il Parlamento palermitano.

La Storia insegna Vico e non solo lui ha corsi e ricorsi, e dunque è meglio essere preparati in anticipo ad ogni evenienza. E se può essere vero che la Storia non si fa con i ma e con i se, la sottobranca storica della cliometria ha dimostrato che si può fare anche e scientificamente con i se e con i ma. Se la Sicilia avesse gestito meglio il proprio 48 e la propria indipendenza non si troverebbe nello stato di miseria e assoggettamento in cui si trova ora, nelle mani di politici che neanche s’azzardano ad applicare del tutto uno Statuto che alla fine garantirebbe una propria quasi-indipendenza almeno nelle entrate, ovvero, una indipendenza di fatto (se in Lombardia rimanessero il 100% delle somme esatte dalla fiscalità italiana, a cosa si ridurrebbe l’appartenenza all’Italia? Le dittature fiscali mostrano bene il loro spirito mercenario, quando sottrai loro il maltolto, si elide e si scioglie ogni altro legame, che appunto, in principio, non esiste). Non solo, ma per quanto riguarda la Sicilia non si sarebbe arrivati all’invasione garibaldina, alle stragi ovvero ai genocidi sabaudi, a tutto il resto. Il Parlamento mal governato e litigioso del 1848-1849 palermitano, mi spiace dirlo, ha sulla coscienza le stragi dei patrioti siciliani dopo il 1861.

La Storia offre rapidamente occasioni immense, non le si sfrutta, e la Storia ci punisce. L’invenzione del Meridione nasce con la sciagurata scelta borbonica – e di chi vi era dietro – di unificare del tutto Sicilia e Napoletania nel 1816. Nel 2016 si festeggerà il bicentenario della prima sciagura (“Frankenstein” uscì dalla penna di Mary Shelley nel 1818 e sono sempre più convinto che la signora trasse ispirazione dalle fusioni e soppressioni di Stati operate a Vienna). Ma che lo Stato di Sicilia “indipendente per sempre” del 1848-1849 sia stato sciaguratamente gestito, è davanti agli occhi di tutti. Meridionia è morta dopo poco più di un anno di vita.

Ora, meglio evitare gli errori del passato, perché immagino un parlamento dello Stato di Sardegna nascituro che si dibatte in maniera lacerante su questioni (interessate, portate avanti da gruppi di interesse più o meno forti), tipo “dobbiamo federarci con l’Italia?”, “dobbiamo rimanere nell’Unione Europea?”, “dobbiamo darci una forma di democrazia diretta”?”, “dobbiamo tornare forse ad essere parte dell’Italia, viste le difficoltà?”. Ma Michela Murgia si domanderà e domanderà: “Che cosa fa veramente l’interesse della MAGGIORANZA dei Sardi?”. Per questo credo che ad ogni indipendenza debba precedere una fase “costituente”, o piuttosto “ricostituente”, che dia vita però a costituzioni molto mondane, flessibili, leggere, se proprio occorre imporle al popolo.

Ora di questo, mutatis mutandis, discutevano a Palermo, se vi fosse stata coesione, anche la massiccia offensiva del Filangieri, che portò alla conquista di Messina con un’anticipazione in forma di bombardamento dei futuri terremoti, avrebbe potuto essere respinta.

I popoli istintivamente non si fidano dei loro governanti se questi sono tragicamente divisi e lacerati tra di loro. Fu il caso della Sicilia del 1848.

Non dubito “Sardegna possibile” presenterà un progetto di Sardegna sostenibile largamente condiviso dai Sardi. Per quel che mi riguarda, rispondo alla frequente obiezioni verso l’indipendentismo veneto – che rappresento in minima parte – riguardo all’assenza di un progetto politico chiaro: io, personalmente, lo ho. Plebiscito2013 lo ha, e penso anche Indipendenza Veneta. Per quel che riguarda il mio, personalissimo: fuori dall’Italia, fuori dall’Europa, bitcoin o un nuovo ducato come moneta, sistema federale svizzero con miglioramenti, stato leggerissimo e decentrato, senza capitale, senza costituzione, ma con una somma di regole-madri sottoponibile a revisione continua, democrazia diretta elettronica a ratifica delle decisioni parlamentari, federalismo fiscale accentuato (su una flat-tax del 15%, il 10% ai Comuni, il resto a quel che resta dello Stato centrale appunto, con funzioni di co-ordinamento ma nel pieno rispetto della sussidiarietà). In via transitoria, adozione dei quattro codici italiani, con rapida convocazione di costituente di giuristi per una ri-codificazione su modello di Common Law, ovvero, su quello…della Serenissima…Un profondo, profondissimo ripensamento della spesa pubblica, con relativi tagli ai rami secchi attraverso un sistema di prepensionamenti, agevolazioni, way out, tipo quello, che nessuno ha osato contestare, che fece la Germania quando si prese i Länder dell’Est, pagando un’enormità (ora gli italiani contribuiscono al riassesto del budget tedesco), ereditando una massa di impiegati-sussidiati dallo Stato nullafacenti (tra questi, diecine di migliaia di “ricercatori” della Accademia delle Scienze, impoltroniti dal salario, minimo ma garantito, che vennero “rigenerati” dai tedeschi dell’Ovest).

Ma questo dico io. I membri del futuro parlamento veneto saranno quelli che decideranno, mettendosi in ascolto del POPOLO VENETO. Le persone che governeranno la Sardegna nella fase di transizione saranno quelle che decideranno.

Attenzione solo allo spettro di Palermo 1848. Avevano ri-conquistato la libertà, e l’indipendenza, e tra liti e puntigli se la sono fatta scappare, tragicamente. Una tragedia immane. Ed ecco che quegli uomini, o meglio alcuni tra di essi, si getteranno nella ancor più tragica impresa sabauda, facendo scontare per un secolo mezzo al loro popolo la dipendenza da una capitale molto più lontana, e molto meno interessata a loro, di quanto fosse la stessa. Napoli. Avevano Palermo, ed ebbero prima Torino e poi Roma. Quale castigo, forse eccessivo. La capitale si allontanò da loro, ma non la pressione fiscale, e prima ancora, gli stermini avvenuti quanto Torino era capitale, ovvero, era la capitale più lontana. Meglio sarebbe stato Napoli? Mah, meglio Palermo. La Sicilia è un’isola diceva Canepa e se Dio l’ha creata così, vi sarà stata pure una ragione.

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